giovedì 12 maggio 2011

Giorgia, una vita da vegana: "La mia dieta, così completa"

SAN GIOVANNI LA PUNTA. Grazie ad una nostra corsista, Giorgia Mirabella, siamo venuti a conoscenza del veganesimo, una filosofia di vita e una scelta alimentare che esclude il consumo di carne di origine animale e di derivati animali come latte, uova, formaggi etc. I vegani si rifiutano di nutrirsi di qualsiasi cosa comporti lo sfruttamento e provochi la sofferenza di animali e piante.


Giorgia, escludiamo anche i vegetali?


"Tutti i vegetali - risponde - possono far parte della dieta vegana perché non posseggono un sistema nervoso, ad eccezione della carota che invece ne è provvista. Noi vegani prevalentemente consumiamo cerali, legumi, verdure, formaggio di soia, latte di soia, una dieta comunque varia che imprende anche integratori alternativi come l'aloe vera che sostituisce la vitamina B12 contenuta nella carne".


Quando sei diventata vegana?


"Prima, dall'età di sedici anni, dopo avere conosciuto persone che seguivano questo tipo di alimentazione, sono stata vegetariana. Poi, da due anni, essendo contraria per motivi etici allo sfruttamento degli animali, sono diventata vegana. Ovviamente, la consapevolezza di questa scelta è avvenuta con un'approfondita conoscenza del veganesimo e dopo che mi sono confrontata con altri vegani. Io credo che certi comportamenti dell'uomo debbano fare indignare".


Qualcuno osserva però che è legge di natura che il più forte mangi il più debole...


"Però gli esseri viventi sono tutti sullo stesso piano".


Ma il leone mangia la gazzella...


"Il leone non ha capacità di scelta, noi invece possiamo scegliere liberamente".


La dieta vegana può essere una dieta sana o priva l'organismo di qualcosa?


"Va seguita in maniera corretta, non deve limitarsi al consumo di sole verdure, ma con un apporto di integratori può essere considerata un'alimentazione assolutamente sana e completa".


Francesca Micalizzi

Catania calcio, una stagione tra luci ed ombre

CATANIA. Con la salvezza ormai acquisita, grazie alla prima vittoria stagionale in trasferta per 2 -1 sul difficile campo di Brescia, per il Catania calcio è tempo di bilanci. Anche se l’obiettivo di inizio stagione è centrato, c’è da considerare il modo in cui è stato raggiunto. Come nelle passate stagioni, è avvenuto il cambio di allenatore “in corsa” (Simeone per Giampaolo), sintomo di un’errata programmazione iniziale. Risulta essere proprio questo il tallone d’Achille della società gestita dal presidente Pulvirenti. Se da un lato, grazie all’ottimo lavoro svolto dal ds Lo Monaco nello scoprire talenti sparsi per il mondo come Vargas e Martinez, ceduti a un prezzo triplicato a società più blasonate, dall’altro la mancanza di continuità nella guida tecnica non permette al Catania di avere un progetto di gioco ben definito. I risultati ottenuti quest’anno confermano questa lacuna. Lo dimostrano i soli 9 punti ottenuti fuori casa sui 43 di classifica, segnale evidente di mancanza di personalità dei rossazzurri lontani dal pubblico amico. Tra le note più liete ricordiamo l’ottima stagione del centrale difensivo argentino Silvestre che con i suoi 4 goal in campionato attira su di sé le attenzioni di società importanti, come Lazio e Fiorentina. Eccellente l’acquisto di Bergessio, attaccante prelevato dal Saint Etienne nel mercato di riparazione per sostituire Mascara, andato a cercare gloria a Napoli. Mercato di Gennaio in cui la squadra è stata puntellata anche con gli acquisti del centrocampista Lodi e dell’esterno destro Schelotto.

La necessità di rafforzare la squadra con la finestra di mercato indica gli errori di valutazione di precampionato. Stagione iniziata, infatti, col tecnico Giampaolo, ottimo sotto l’aspetto tattico, ma poco vicino dal punto di vista caratteriale all’ambiente catanese. Lo dimostra il feeling mai sbocciato con pubblico, giocatori e società. Non a caso la rescissione del contratto è stata consensuale.

Con l’arrivo del mister Simeone la squadra ha forse perso qualcosa sotto l’aspetto tecnico, ma ha ritrovato la grinta dell’era Mihaijlovic. Lo dimostrano risultati importanti come il 4 – 0 casalingo nel derby col Palermo e il 2 – 2 ottenuto al 95’ a Torino con la Juve. Dopo l’ennesima stagione tribolata con permanenza in serie A agguantata nelle ultime partite, per il Catania calcio è arrivato il momento di fare il salto di qualità. Bisogna investire in maniera mirata, rafforzare il settore giovanile e, soprattutto, dare alla squadra un’impronta di gioco chiara e duratura per puntare a traguardi più prestigiosi che una piazza come Catania decisamente merita.

M. Gabriella Puglisi

Friscaleddi, cianciani e trocculi: il gruppo Vecchia Jonia custode del folklore siciliano




GIARRE. Le tarantelle ritmate e veloci, i canti e le coreografie rivolte ai mestieri del tempo: “u chiovu”, “a cialoma”, “u iadduzzu”; ancora, balli dedicati al duro lavoro delle donne, come quello di lavare le lenzuola nei fiumi (“u linzolu”) o quello di lavorare il grano (“u criu”); o anche danze che raccontano le varie festività e ricorrenze: “a vinnigna”, “a jolla”. Il tutto accompagnato dai colori sgargianti dei costumi e l’uso di particolari attrezzi con i quali i vari lavori venivano svolti. È questo il patrimonio dell’arte siciliana che il gruppo folk “Vecchia Jonia città di Giarre e Riposto” diffonde in giro per il mondo.
«L'Associazione culturale si è costituita il 17 Ottobre 2008 per volontà di alcuni giovani profondamente legati alla loro terra e uniti dal comune interesse di conservare, divulgare e tramandare le autentiche tradizioni popolari di cui è ricca la Sicilia», racconta il presidente Egidio Fichera, per spiegare la nascita di questo gruppo folklorico il quale, nonostante la recente formazione, sembra essere già noto e richiesto: si è infatti esibito in diverse manifestazioni quali sagre, raduni provinciali e regionali; ha partecipato a vari programmi televisivi come "Cuochi senza frontiere" condotto da Davide Mengacci su Rete Quattro e, in occasione del carnevale estivo di Acireale, “Linea blu”di Rai Uno.
Michele Bonaccorso, musicista nonché componente e vicepresidente del gruppo, mostrando ogni strumento, spiega: «Le musiche dal vivo sono eseguite con l’uso di chitarre e mandolino, fisarmonica e fischietto (“friscalettu”), del tamburo, del “marranzano” o “scacciapensieri,” e di altri strumenti caratteristici quali: i “trocculi” ( noce di cocco ) la “quartana” o “bumbulu”, le “cianciane”».

«I canti sono frutto di ricerche o di ricordi passati di anziani: serenate, duetti, ninne nanne, nenie e leggende», dice la cantante e direttrice artistica dell'Associazione Patrizia Chillari, conosciuta e apprezzata anche per la pazienza e il tempo con cui si dedica ai bambini insegnando loro il folklore. Saranno proprio questi ultimi, una volta cresciuti, a formare il corpo di ballo degli adulti, come testimonia la ballerina Lorena Trovato: «Faccio parte del gruppo da tredici anni, considero questa attività parte integrante della mia vita e benché essa richieda un costante impegno per le continue prove, è occasione di ritrovo per tutti noi in quanto amici legati da una comune passione».
Emozionanti le parole di Fichera, il quale conclude: «L’attività del gruppo non costituisce, per i ragazzi che lo compongono, un’attività retribuita, ma per ognuno di loro è simbolo di divertimenti, viaggi, amicizie: un'atmosfera basata su tradizioni, sentimenti e complicità, valori che solo una famiglia può insegnare».
Soddisfacenti, dunque, i risultati ottenuti da questi giovani, i quali nonostante siano giornalmente a contatto con le tecnologie e una società che non guarda più al passato, si ritrovano a tenere vive le tradizioni e la cultura di un tempo.

Federica Orefice
Eleonora Caggegi

mercoledì 11 maggio 2011

Un'esperienza utile per conoscere meglio il giornalismo

SAN GIOVANNI LA PUNTA. Diventare giornalisti? Sì! Si può, ma la strada da percorrere è in salita, ecco perché è fondamentale l’esperienza di un corso (in)formativo. Naturalmente non esiste una lista degli “ingredienti” che possa orientare e di conseguenza creare la perfetta figura del giornalista: esiste, però, un punto di partenza.
Grazie al corso Pon, tenuto in questo istituto, a cura del dott. Orazio Vecchio, noi “amanti della penna”, abbiamo acquisito una serie di conoscenze in campo giornalistico, volte a fornire quelle nozioni base necessarie a chiunque voglia intraprendere questa professione.
Il giornalismo è “la prestazione del lavoro intellettuale volto alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie destinate a formare oggetti di comunicazione interpersonale attraverso organi di informazione”, ma non solo. Il giornalismo è storia, comunicabilità, cultura, informazione, senso critico; rappresenta un’insieme di valori etici dai quali non si può prescindere per divenire un “bravo giornalista”, come affermò Kapuscinski: “i cattivi non possono essere buoni giornalisti”.
Durante le sessanta ore di lezione abbiamo appreso che: la realizzazione di un giornale è suddivisa in più fasi, esistono diversi metodi di ricerca delle fonti così come esistono diversi tipi di articolo dalla cronaca nera al “coccodrillo”, dal “fogliettone” al reportage. Abbiamo compreso che alla riuscita di un buon pezzo concorre non solo l’argomento in sé , ma essenziali sono il titolo, che ha il compito di catturare l’interesse del lettore, e il lead (l’attacco), che in poche righe deve illustrare il contenuto dell’articolo; che fondamentale è anche il “come” si espone la notizia, in modo chiaro, sintetico, esaustivo ed accattivante.

Carla Mirabella

Chiara Cannuli

Ramat: alla poesia l'uomo chiede verità



CATANIA. “L’uomo vuole la verità dalla poesia, quella verità che egli non ha il potere di esprimere e nella quale si riconosce, verità delusa o attiva che lo aiuti nella determinazione del mondo, a dare un significato alla gioia o al dolore in questa fuga continua di giorni, a stabilire il bene e il male, perché la poesia nasce con l’uomo, e l’uomo nella sua verità non è altro che bene più male”, un pensiero, sempre attuale, espresso da Quasimodo, all’interno del proprio saggio intitolato “L’uomo e la poesia”, per introdurre Silvio Ramat, stimato poeta e critico italiano, protagonista di una gradevole conversazione sul valore contemporaneo dell’arte poetica. “La verità - soggiunge Ramat -, purché s’innalzi in superficie, e la memoria, avente facoltà propulsiva per mezzo della quale si va avanti, senza la quale non si avrebbe genesi, devono essere amiche della poesia che, altrimenti, avrebbe un limite molto forte”.
Quando ha scoperto la passione per la poesia?
“La poesia mi ha preso nell’etere, tra la seconda e la terza liceo. Allora leggevo e amavo molto i crepuscolari, il Pascoli… La poesia, prima non c’era e poi ci fu. Se andrà via temo che non lo capirò nell’attimo dell’abbandono - racconta il letterato”.
Qual è, a suo avviso, la peculiarità dell’essere poeta?
“Il bello del poeta è che può contraddirsi sempre. La poesia non si deve capire allo stesso modo di un articolo o di un resoconto. Sono talmente vanitoso, nei limiti della decenza, che un giorno - aggiunge con spigliatezza -, un amico mi suggerì per gioco di seppellire la nostra peggiore poesia dentro una specie di bara creata di proposito e io, tassativamente, non volli farlo, tanto ero geloso persino di quella che riconoscevo essere la meno bella tra le mie poesie ”.



Nell’epoca inquinata (anche) dalle facili pubblicazioni, in che modo riconosce un vero poeta?
“E’ molto difficile. Sono sommerso. Nel mio studio, in facoltà, ricevo tantissimi libri. Credo, piuttosto, di capire subito quando non c’è un poeta. Le cartine di tornasole sono il riscontro di una cura formale, la modestia degli assunti e la coerenza di un testo”.
Oggigiorno cosa può minacciare la compiutezza di una valutazione critica?
“Nel nostro tempo, senza computer ci si separa dal mondo, seppure, in verità, a volte, non sarebbe poi così male. Il pc è utile ma c’è il rischio che segni la fine degli epistolari e anche delle varianti, ovvero le plurime versioni di un testo, comprese le correzioni apportate, man mano, dall’autore”.
Quando una poesia può dirsi compiuta?
“Si parte da una costellazione e si arriva in un’altra. Ritengo possa dirsi conclusa quando un concetto trova la sua espressione con figuratività icastica”.



Grazia Calanna

Padre Gabriele Allegra, 35 anni fa il "transito" a San Giovanni La Punta



È stato celebrato nei giorni scorsi il 35° anniversario del transito del venerabile frate Maria Gabriele Allegra a San Giovanni La Punta. La celebrazione, promossa dai frati minori di Sicilia e dal parroco della chiesa Madre di San Giovanni La Punta don Orazio Greco, è stata ospitata nella chiesa Madre di San Giovanni La Punta.



Il ministro provinciale dei frati minori di Sicilia, Giuseppe Noto, ed il sindaco di San Giovanni La Punta, Andrea Messina, hanno dato il benvenuto ai tanti partecipanti. Sono state ricordate le origini di frate Gabriele Allegra, la sua povertà, la vita in collegio ad Acireale dove egli studiava e dove, non sempre, i suoi amati genitori riuscivano a pagare la retta. Padre Gabriele Allegra nacque a San Giovanni La Punta nel dicembre 1907. Trasferitosi in Cina nel 1935, iniziò a tradurre la Sacra Bibbia in lingua cinese e, per questo, fu incarcerato e successivamente condannato a morte dal regime comunista. “La mattina in cui dovevano sparagli attraverso la finestra del carcere - racconta la sorella suor Paola - nel momento in cui la guardia carceraria fece esplodere il colpo di fucile, proprio in quell’istante, il caso volle che egli si inchinasse per raccogliere un foglio di carta; fu così che si salvò la vita e, per intercessione degli stessi carcerieri, venne poi liberato”. Padre Gabriele morì ad Hong Kong nel 1976 per ascesso peritonsillare. Nel 1984 il vescovo cinese John Wu promosse la causa di beatificazione e nell’aprile del 2002, alla presenza di Papa Giovanni Paolo II, fu proclamato venerabile.
Quando padre Gabriele Allegra ritornava a S .Giovanni La Punta, il primo incontro era sempre con i suoi cari genitori. Egli si inginocchiava e chiedeva loro la benedizione, tanto era forte la gratitudine per quello che da essi aveva ricevuto. Nel 1923, durante il suo noviziato, diceva ai suoi genitori: “Pregate la Madonna che abbia sempre sotto il suo manto l’indegno suo servo”. Già all’età di quattro anni il piccolo Gabriele, andando con la mamma ad ascoltare la messa, incominciava ad imparare a parlare il latino; a sette anni diventava il chierichetto fisso a servire la messa nella chiesa della Ravanusa. Egli, innamorato della letteratura cinese, amava dire: “Sono puntese, italiano e cinese”.



Salvatore Cifalinò

Grazia e Nhora, tra poesia e prosa alla ricerca della verità

CATANIA. Grazia Calanna e Nhora Caggegi sono due giovani scrittrici catanesi, che hanno descritto le loro emozioni rispettivamente l’una con una raccolta di poesie e l’altra con un romanzo in prosa: la ricerca della verità e la violenza del silenzio sono un binomio comune alle due opere.
Nel romanzo “Il silenzio del salice piangente” la scrittrice Nhora Caggegi tratta di un argomento di forte impatto sociale, l’ermafroditismo. Il romanzo nasce dal desiderio dell’autrice di far conoscere la vera storia di un amico, nella speranza di porre fine alle maldicenze dovute all’ignoranza della gente.
Il protagonista, infatti, sin da quando era piccolo si sentiva prigioniero di un corpo che non gli apparteneva fino a quando, in seguito a dei controlli clinici, scoprirà di possedere delle caratteristiche maschili non solo psicologiche, ma anche fisiche; così, successivamente a degli interventi medici, riconquisterà la sessualità che ha sempre sentito sua. Fondamentale, in questo percorso di conquista della propria identità sarà l’amore, sofferto ma sconfinato, verso una donna, tutt’oggi compagna di vita del protagonista.
Pur non essendo un romanzo autobiografico la scrittrice è riuscita, nell’arco di due anni, a spogliarsi di qualunque pregiudizio e a far sue le sofferenze, le paure e le emozioni di un’altra persona la quale, dopo essersi per molto tempo rifugiata nel silenzio (nel libro il protagonista trova quiete solo ai piedi di un salice), ha trovato il coraggio di gridare al mondo il suo dolore, la sua scomoda verità.
L’apporto della scrittrice è principalmente stilistico. Lo sforzo artistico è riscontrabile nell’adattare le proprie emozioni alla particolare situazione descritta. Tuttavia confessa che non potrà più scrivere una storia che non sente propria, perché per lei è troppo difficile: “Scrivere è un’arte. Tutti riusciamo a scrivere, ma sei uno scrittore solo quando riesci a trasmettere emozioni e sensazioni in chi legge la tua storia. Riuscire a trasmettere delle emozioni che non ti appartengono è una vera e propria sfida e io penso di averla vinta”.
L’approccio della Caggegi con il mondo della scrittura è avvenuto all’età di quattordici anni, con un libro di poesie. Il suo secondo lavoro è stato una raccolta di racconti brevi, ma il suo sogno è quello di fare critica cinematografica: “Scrivo per un piacere interiore, non ho nessun interesse economico”.
Diversamente dalla scrittrice, la giornalista Grazia Calanna si è avvicinata alla scrittura per curiosità: “Essere giornalista significa raccontare il mondo e per raccontarlo bisogna essere curiosi. Io però non mi ritengo una giornalista canonica, scrivo se mi emoziono. Ho un immenso amore per la scrittura”.
Le sue poesie, raccolte nel libro “Crono silente”, sono un grido contro i mali che affliggono la nostra epoca. Già nel titolo dell’opera si possono trovare le due parole-chiave fondamentali per comprendere la lirica della poetessa: da un lato “Crono”, il tempo, che logora e divora la vita dell’uomo, costringendolo ad una corsa sfrenata nell’intento di esaudire i propri sogni; dall’altro lato il “silenzio”, che può essere doloroso, ma anche complice.
L’autrice, osservando la realtà che la circonda e dando voce alle proprie emozioni, affronta diversi argomenti, dalla materialità dell’esistenza umana contemporanea al disagio dell’uomo, dall’ingiustizia alla morte.
Argomento ricorrente nel libro è la solitudine, una condizione che non appartiene realmente alla vita dell’autrice, ma a cui ella non può rinunciare durante il momento creativo: “Grazie alla comprensione che ho ricevuto da chi mi sta intorno, sono riuscita a portare avanti questo lavoro. Il disagio spesso lo percepisco intorno a me. Ho scritto una poesia che parla della condizione degli immigrati e l’ho scritta su un tovagliolo di carta, seduta al tavolino di un bar nella confusione e nell’indifferenza degli altri. La mia poetica nasce dal giornalismo, dalla necessità di guardarsi attorno”.
Come la Caggegi, anche la Calanna afferma di non voler più scrivere un libro di poesie: “La poesia è massacrante, se dovessi tornare indietro non riscriverei nemmeno questo libro. Raccontare e raccontarsi attraverso la poesia è qualcosa di molto personale che comporta uno sforzo enorme. Probabilmente potrei pensare di scrivere un romanzo. Un romanzo è tutt’altra cosa, ma un libro di poesie non lo rifarei”.
Infine, il rapporto di entrambe le donne con le case editrici è stato positivo. La Caggegi racconta di essere affiancata da una persona cara che la segue sin dal principio e che si occupa di tutto; mentre la Calanna precisa che “l’editore non ci fa un favore. Tutti abbiamo il diritto di scrivere ma non tutti abbiamo il diritto di pubblicare. Serve una persona che creda in noi e che apprezzi il nostro lavoro al punto d’essere disposta a investire del denaro. Io sono stata fortunata perché ho trovato questa persona”.


Simona Franceschino
Andrea Franceschino
Eveline Bevilacqua
Maria Leotta

Emergenza povertà a Catania: i dati del Dossier Caritas

CATANIA. Cosa può risvegliare una città dal letargo affinché riprenda la partecipazione alla vita dei più sfortunati e stimoli interventi politici a sostegno di iniziative virtuose al servizio del territorio? La Caritas diocesana di Catania risponde con un dossier che fornisce i dati sulle principali emergenze sociali rilevate nel primo trimestre 2011. Dati che hanno il valore di misurare i nuovi accessi al mondo dei poveri che in ragione della loro “prima volta” sono più disperati e fragili. Esattamente ciò che sta accadendo alle famiglie seguite dal centro ascolto della Caritas, che tracimano sempre più verso il baratro della povertà con un incremento del 68% di presenze rispetto allo stesso trimestre del 2010.

La crisi lavorativa la causa di tutto soprattutto di uomini, tra i 40 e 65 anni. Perdita del lavoro, difficoltà a trovare un impiego, e quando c'è, a mantenerlo. Se, poi, l'età avanza diventa impossibile essere riassorbiti dal mercato del lavoro e chi tra loro riusciva a guadagnare qualcosa grazie al sommerso, non può più arrangiarsi perché anche questo settore è in crisi. Considerando i dati dell'Help center la realtà si aggrava ed il numero degli accessi giornalieri aumenta notevolmente. Le richieste maggiormente formulate sia da italiani che da stranieri riguardano i problemi occupazionali, abitativi e di povertà economica. Per quanto riguarda l’accoglienza notturna nel periodo gennaio/marzo sono state ospitate nei centri di prima accoglienza Caritas, 158 persone, di cui 75 uomini e 83 donne.

E i migranti? Catania, tra le città siciliane, occupa il secondo posto con ben 23.411 presenze di stranieri regolari e il più alto numero di occupati stranieri impiegati per lo più nel settore dell'agricoltura e ristorativo/alberghiero, provenienti da: Romania, Tunisia, Marocco, Sri Lanka e Albania. Ciò testimonia che la città etnea è riuscita a costruire delle forme di accoglienza e assistenza tali da garantire un minimo di inserimento sociale a questi individui svantaggiati. Nel settore della "salute mentale" si osserva che nei casi di madri in difficoltà, gli inserimenti in “casa-famiglia” sono tutti urgenti ed oggetto di Ordinanza del Tribunale dei Minori. Ciò rende ancora più problematica la eventuale richiesta d’aiuto, perché se per parlare d’aiuto si deve scomodare il Tribunale, molte donne e famiglie ne fanno a meno proprio per il timore che questo occhio indagatore scopra cose che le persone non sono ancora in grado di accettare o di consapevolizzare. Dipendenze, emergenze abitative, periferie e minori sono altri settori che necessitano di ulteriori interventi ai quali la Caritas cerca di dare risposte concrete ma l'impegno più grande deve essere una presa di coscienza collettiva che parta dal singolo cittadino attraversi amministratori e amministrati e arrivi a creare una reale prossimità e disponibilità al servizio affinché centinaia di persone ogni mese (266 gennaio/marzo 2011) non accedano più a percorsi di grave impoverimento.

Genny Mangiameli

Laura Battaglia: come diventare (bravi) giornalisti

CATANIA. Diventare giornalisti oggi. Che sia un'utopia? Stando alle parole di Laura Battaglia è ancora possibile. Docente presso l’Università Cattolica di Milano, collaboratrice del quotidiano Avvenire, ma soprattutto giornalista – documentarista di valore, in un'intervista rilasciata alla sede del quotidiano La Sicilia, mostra quanto la professione del giornalista, se pur più complessa di un tempo, sia in grado, ancora, di dare grandi soddisfazioni.
Esordisce raccontando la sua formazione, la laurea in Lettere classiche, un diploma al Conservatorio, tra i suoi primi lavori per La Sicilia una recensione sulla "Giara" di Pirandello, il passaggio alla cronaca bianca. In seguito, grazie ad un incontro con personaggi del valore di Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri , e Matteo Collura, giornalista e scrittore di origini siciliane, decide di iscriversi alla Cattolica di Milano al fine di acquisire nuove conoscenze. Ed infatti dichiara di aver maturato in quei due anni tre importanti competenze: «ottimi strumenti di metodologia di ricerca delle fonti, multimedialità e conoscenze in merito alla creazione personale di documentari con cui promuovere la mia attività». Effettua quindi uno stage presso la redazione culturale di Avvenire e dopo l'iscrizione all'Albo collabora attivamente col giornale. Fondamentale nella sua formazione il corso tenuto dallo Stato Maggiore sul come "sopravvivere"in condizioni critiche e in realtà lontane – geograficamente ma anche culturalmente – dalla nostra, ed a questo punto racconta la sua esperienza in Afghanistan, delle difficoltà oggettive che un viaggio come quello comporta, ma per lei che non ama la “vita da scrivania” essere giornalisti significa proprio avere il coraggio di mettersi alla prova, di rischiare.
Quindi, tutti possono realmente diventare giornalisti?
Si, tutti ne hanno la possibilità ma solo unendo una certa tenacia a particolari abilità quali «multimedialità, capacità di crearsi relazioni e contatti utili, e una certa dose di originalità».
«Il lettore vuole che i giornalisti siano i suoi occhi, le sue mani» conclude Laura, è importante quindi indagare, riportare fatti, essere attivi e sopratutto critici, non lasciarsi manipolare da una società come la nostra che effettua sempre più un “controllo dei cervelli”.

Damiana Giacobbe

Moon, quando il futuro sulla Luna non è solo fantascienza






Moon è stato prodotto da Trudie Styler, moglie di Sting; e diretto dall'esordiente Duncan Jones, figlio di David Bowie. Il primo film del regista trova una brillante sintesi tra: 2001 Odissea nello spazio, Solaris e Blade Runner. La pellicola è ispirata dal libro di Zubrin dal titolo: “Entering Space: Creating a Spacefaring Civilization”(del 1999) che parla della colonizzazione di Marte. Diretto con abbondanza di idee e paradossi (logici, etici, sociali), e con grande economia di mezzi. Salvo la moglie e la figlia in video, c'è infatti un solo attore in scena, lo straordinario Sam Rockwell.
Moon lo si può definire come un ritorno alle origini della fantascienza, dove lo spettatore amante della vecchia rappresentazione fantascientifica piena di riferimenti sociologici, con poche esplosioni e nessun eroe, ritroverà con piacere temi dati per perduti anni addietro. L’essere umano di oggi si trova in una situazione quasi simile a quella constatata dal film e cioè: al punto di non ritorno. L’uomo è colpevole di uno sfruttamento spudorato, a danno di un ecosistema sull'orlo del cedimento ambientale, e in Moon si è visto costretto a cercare una nuova fonte di sostentamento; un’utopia per i tempi che corrono. Nel film inoltre la totale assenza di rispetto, agevolata da una sempre maggior mancanza di un qualsiasi principio etico, morale e sociale, ha portato l’uomo a sostituirsi addirittura al creatore e alle sue leggi di procreazione; cosa che nella realtà sta pian piano accadendo. Infatti, tra le tematiche del film, si parla pure di clonazione umana (stile Blade Runner dove i replicanti erano capaci di piangere) per accentuare la sublime perdita totale della concezione di vita vista come dono, e qui proiettata verso soddisfacimento di un lavoro estremo.


Sam Bell è il sorvegliante di una miniera decisiva per le nostre risorse energetiche, ma non fa granché. Ogni tanto esce su un bulldozer in un ambiente ostile e sinistro, controlla che alla miniera, interamente automatizzata, tutto sia a posto, poi torna alla base. Sempre solo. Fatto salvo il servizievole e quasi umano computer di bordo, Gerty, che richiama ovviamente l'Hall 9000 di 2001 Odissea nello spazio (che cambiò la visione tecnologica degli spettatori dei tempi) perché anche in Moon non siamo sulla Terra. Il film si apre su Sam quasi alla fine del suo triennio, desideroso di tornare sulla Terra da moglie e figlia con le quali comunica solo via video. Salvo scoprire, quando inizia ad accusare malesseri e allucinazioni, che l'infido Gerty (voce di Kevin Spacey in originale) fa il gioco sporco. Qualcuno dovrà arrivare a sostituirlo, ma le cose stanno molto diversamente da come sembrano e il rientro a casa per Sam sarà tutt'altro che facile. La chiave del film si manifesta sin troppo presto e soprattutto il senso d’angoscia del non ritorno accompagna tutta la trama. Infatti, come Solaris di Soderbergh, la solitudine umana ha un ruolo ben definito nel film. La distanza dalla donna amata rende il percorso un attesa straziante che perdurerà durante tutto il tragitto, una sorta di sentimentalismo cosmico che nutre la speranza col ricordo dell’amata. Altro tema percorso, tra i più belli e allo stesso tempo inquietanti della fantascienza del Novecento, è un futuro in cui le macchine potrebbero avere più cuore degli umani. Infatti Gertie, come l’Hall 9000, è capace d’interagire con gli esseri umani e soprattutto di andare contro la volontà di chi lo ha creato, una sorta ribellione della fredda macchina. In Moon notiamo, come Gertie, all’inizio esegua alla lettera i comandi della casa base, poi invece instaura una sorta d’amicizia con Sam che lo porta ad andare contro gli interessi della compagnia quando (alla fine del film), resettandosi la memoria, all’arrivo dei tecnici, permettere la fuga del protagonista verso la terra.
Il finale della pellicola resta aperto a vari scenari, nonostante una conclusione definitiva sarebbe stata molto più efficace, sempre che non ci sia un seguito in futuro.
Moon, non utilizza effetti digitali e computerizzati ma torna ai modellini vecchio stampo stile anni ’70, infatti, anche per questo ha avuto un costo esiguo e un successo tre volte tanto e ha dato modo allo spazio di riconquistare il suo potere originale e la sua carica misteriosa andata perduta nella deriva della tendenza del genere, desiderosa di scaricare sullo spettatore le maggiori tecniche e gli effetti del cinema del terzo millennio, finendo per trovare sempre più gli alieni e mai gli uomini.
Gradevole per gli amanti del genere e noioso per coloro che preferiscono altri tipi di film, infatti il capolavoro di Duncan Jones è pesante per i novizi odierni che cercano spettacolarità e intrecci di trama.
Moon ci lascia con delle riflessioni non indifferenti sul futuro della parte umana dell’uomo, ricordandoci che prima di scoprire l’esistenza di eventuali civiltà aliene, dobbiamo realmente prendere in considerazione come l’innesto di nuove tecnologie sempre più avanzate, a livello mondiale, possa modificare la concezione della morale umana.
A che prezzo vendereste la vostra umanità?


Orazio Ardizzone

Claudia Dragna: «Come arredare? Si cerca la semplicità»

CATANIA. Cosa sarà di tendenza quest’anno nell’arredamento? Quali forme e quali stili? Moderno minimal, classico stile Luigi, neoclassico, o cos’altro? «Nello stile classico si prediligono le forme semplici senza eccessi, mentre nel moderno lo stile minimal, tanto osannato dalle riviste d’arredamento, riveste un ruolo principale. Sono invece tempi duri per gli amanti dello stile impero o barocco, insomma del classico per antonomasia, vuoi per i prezzi proibitivi o per le piccole dimensioni degli appartamenti», spiega Claudia Dragna, interior design nell’azienda di famiglia a Catania.
Claudia, cosa cercano oggigiorno i clienti che mettono su casa?
«Innanzitutto il buongusto, la semplicità. Il cliente preferisce spendere sia tempo che denaro per arredare la cucina, che da un po’ di tempo a questa parte si è trasformata nell’ambiente più vissuto della casa. Sempre più aperta sul living, la cucina veste i panni dismessi del vecchio soggiorno trasformandosi in un punto di ritrovo per l’intera famiglia, nido di relazioni affettive: il marito guarda la tv seduto nella chaise lounge, i figli fanno i compiti al tavolo mentre la moglie cucina, ottima opportunità per trascorrere un po’ di tempo tutti insieme. I materiali di tendenza per lo stile moderno sono i laccati lucidi, un po’ tutte le tinte, dai colori primari ai toni pastello o materiali polimerici nei diversi colori. In più da quest’anno si usano molto le tinte della terra, come grigio roccia o pietra chiara, vanno molto anche i laccati a poro aperto, soprattutto il bianco. Di tendenza il noce nelle nuove versioni. Si usa ancora il rovere moro e qualche insaziabile del genere cerca ancora il ciliegio».
Ad arredare casa sono soprattutto giovani prossimi al matrimonio, single, o coppie che vogliono rinnovare l’arredamento portando un po’ di novità in casa?
«Abbiamo avuto negli ultimi anni un incremento considerevole di clienti single età media 35/45 anni che vanno a vivere da soli, la casa, quasi sempre ereditata dai nonni, la arredano in maniera funzionale ma comunque creativa, cercando di conciliare design ed economicità. I giovani prossimi al matrimonio sono i più facili da servire, hanno tanti sogni, poca esperienza e si lasciano completamente guidare dall’arredatore d’interni. I clienti più difficili da seguire sono invece la coppie già sposate che rifanno l’arredamento a distanza di anni, sono molto esigenti, sanno quello che vogliono e non vedono nell’arredatore una figura che dispensa consigli ma una persona che pensa solo all’estetica ostacolando i loro progetti di funzionalità. Categoria a parte sono i “single di ritorno”, ovvero i divorziati, che spesso tornano a casa dai genitori e ri-arredano la vecchia cameretta di quando erano ragazzi, sostituendo il classico letto singolo con uno da una piazza e mezza, oppure vanno a vivere in un monolocale arredandolo nello stile del film “Ragazzo di campagna” con Renato Pozzetto, ovvero hanno a disposizione solo 15 mq e devono farci stare dentro tutto!».
E a proposito della tipologia della abitazioni: sono più gli appartamenti o le ville?
«Senza dubbio arrediamo maggiormente appartamenti, 3/4 vani al massimo, con ampia zona giorno e due camere da letto. Non mancano i piccoli bilocali, più rari i monolocali. Le ville sono un discorso a parte, su più piani di solito, in periferia, e ci si può sbizzarrire nell’arredarle. Capita anche di arredare appartamenti d’epoca, dove è più difficile coniugare lo stile dei mobili con quello delle rifiniture della casa».
Che tipo di consulenza dà l’interior design?
«L’interior design aiuta nella scelta dello stile, assecondando i gusti e le esigenze della clientela, abbina i colori e aiuta il cliente nella disposizione ideale dei mobili e dei complementi di arredo. La tecnologia viene in soccorso di noi arredatori con le realizzazioni in 3D, l’ambiente viene ricreato con misure in scala, realizzato con la massima precisione, permettendo così al cliente di vedere la sua casa in miniatura».
Allora, sono questi i servizi che distinguono le piccole e medie imprese dalla grossa distribuzione?



«Anche. Il cliente in più diventa nostro “complice”,vede nel suo arredatore un punto di riferimento,e capita, non di rado, che una volta abbassate le saracinesche ci si fermi a fare due chiacchiere su argomenti che non hanno niente a che vedere con l’arredamento».



Maria Cristina Catania

L'odissea dei passeggeri dell'Amt

CATANIA. «Signorina quest’autobus purtroppo non partirà, perché guasto». Questa la risposta che, dopo aver chiesto all’autista l’orario in cui sarebbe partito l’autobus, ha ricevuto una studentessa intervistata. Il mezzo, apparentemente funzionante, con le porte spalancate e il nome della destinazione impresso sul display, era gremito di passeggeri che, non senza lamentele, sono stati costretti a scendere e a ripiegare attendendo altri mezzi o avviandosi a piedi.
Autobus che ritardano, mal funzionanti, sporchi: è una realtà che sempre più spesso emerge dalle varie interviste alle quali sono sottoposti gli utenti del trasporto urbano di Catania. Basta recarsi in una delle tante fermate urbane per registrare le lamentele dei cittadini catanesi che, chi per scelta e chi per necessità, si spostano in autobus. Quotidianamente ormai i pendolari convivono con questi disagi, ai quali la società, purtroppo, non riesce a porre rimedio . È una consuetudine, infatti, aspettare l’autobus per diversi minuti e, in alcuni casi, subire oltre la beffa il danno: dopo interminabili attese, non riuscire neanche a usufruire del servizio. Per rimediare ai ritardi ai quali ormai siamo abituati, o ad altri tipi di disagi, si è costretti ad andare a posizionarsi alla fermata urbana con almeno dieci minuti di anticipo rispetto all’orario di partenza previsto, per arrivare così puntuali a lavoro, a scuola o in qualunque altro appuntamento.
L’Amt, Azienda Municipale Trasporti, che con approvazione del Consiglio comunale è stata trasformata in Società per azioni, già da diverso tempo ha in cantiere l’assunzione di ulteriori autisti per migliorare il proprio servizio. Dopo aver appreso questa notizia, la gente che utilizza spesso gli autobus per spostarsi da un posto a un altro, è rassicurata e fiduciosa che la situazione attuale possa migliorare, anzi deve migliorare, perché l’efficienza di tale servizio è un diritto del cittadino.

Venera Lauria

martedì 10 maggio 2011

"Terra di speranza", foto in mostra a Valverde

Valverde. Presso lo spazio espositivo della galleria Fiaf (Federazione italiana associazioni fotografiche) a Valverde, si è tenuta la mostra personale di Carmelo Crisafi, socio della Bfi (Benemerita della fotografia italiana), appartenente al gruppo “Le Gru” di Valverde. La mostra, inaugurata venerdì 25 marzo e aperta fino al 30 aprile, è stata presentata dal presidente del gruppo fotografico “Le Gru” Giuseppe Fichera, dal consigliere nazionale Fiaf Enzo Gabriele Leanza, dal direttore della galleria Santo Mongioì e dal fotografo ed opinionista del gruppo Pippo Pappalardo. Un’esposizione di immagini, emozioni, ricordi dal titolo “Lampedusa terra di speranza”, un reportage descritto da Pappalardo come una «volontà rappresentativa che Crisafi ha voluto significare con scatti pieni di rispetto che porta lo sguardo, quando si accosta ad una singola persona o ad un gruppo, ad un’attenzione particolare, ai momenti difficili con serenità, scambio di sorrisi, di gioco, di scherzo». Così pure si evidenzia l’azione di soccorso ed accoglienza, l’assistenza ai bambini, il ruolo dei volontari e delle forze dell’ordine che con coscienza svolgono il loro lavoro.
Crisafi ha saputo cogliere con discrezione una prospettiva di vita che continua con ritratti e scene intime, un reportage dell’anima vera e profonda catturata dall’obiettivo con intelligenza emotiva, fissata con un senso costante di stupore nell’istante della verità, felicità, dolore, sogno, malinconia. Spunti per riflettere su concetti e verità senza tempo come la forza dell’amore e del dolore, bocche carnose, occhi grandi, parti del viso che raccontano la propria storia, comunicando con uno sguardo il loro rapporto con il mondo.
E’ così che una raccolta di foto diventa la mostra di una realtà che esprime pensieri ed emozioni, facendo piazza pulita dei tanti pregiudizi e luoghi comuni dei nostri giorni e ci fa riflettere su un Italia ricca di culture diverse, lanciando un messaggio sottovoce da non dimenticare: la solidarietà verso chi ha bisogno d’aiuto. Carmelo Crisafi ha saputo dire semplicemente chi sono gli immigrati.

Lucia Privitera

Alien tour a Catania, Allevi incanta la platea

Catania. Ospite del Teatro Metropolitan di Catania, Giovanni Allevi si è esibito registrando il tutto esaurito in una delle date dell’Alien tour, che è cominciato il 19 febbraio al Palalottomatica di Roma e lo porterà nelle principali città italiane.
Il pianista marchigiano ha proposto alcuni brani tratti dal suo ultimo disco di inediti per pianoforte solo, come: Secret Love, Tokio Station, Giochi d’Acqua, Memory, Helena, Joli, L. A. Lullaby, oltre ai suoi più grandi successi quali Back to life, Come sei veramente, l’Orologio degli dei, Ti scrivo. «Gli alieni siamo noi – dice Allevi – che con la nostra sensibilità cerchiamo lampi di poesia tra le pieghe dell’esistenza quotidiana. Rifiutando l’omologazione affermiamo con delicatezza la nostra unicità, facendo della vita un’opera d’arte. È la musica che ci permette di guardare il mondo con occhi nuovi, tanto da scoprire l’incanto in ciò che ci circonda, fino a sentirci alieni circondati da alieni».
Quando correndo sale sul palco, jeans e felpa come se stesse per suonare per alcuni amici e non per un teatro stracolmo, si comincia a respirare un’atmosfera magica e familiare che non si spezzerà solo al termine del concerto. Le dita di Allevi si muovono come ragni che tessono una tela nella quale la platea non può fare a meno di restare intrappolata. Ci si risveglia come da un sogno solo quando il pianista, che suona curvo sullo strumento come a volergli restare il più vicino possibile, con un gesto lento, sempre lo stesso, alla fine di ogni brano si allontana dalla tastiera per incassare intimidito l’applauso che gli spetta.
Quasi due ore di musica trascorrono così. Prima la presentazione di ogni brano, con la descrizione di ciò che rappresenta e del momento in cui è nata l’ispirazione, e poi una straordinaria esecuzione. Al termine del concerto il personale del teatro fa fatica a contenere la folla che desidera un autografo, una foto o semplicemente complimentarsi con l’artista, che rimarrà fino ad oltre mezzanotte a stringere le mani, firmare autografi e ricevere tributi di stima e affetto.


Rosacarla Romeo